Una delle caratteristiche dell’economia della consapevolezza è la capacità di lettura dei fenomeni, la comprensione del loro fluire nel tempo e nello spazio, il “vedere” oltre ciò che guardiamo. Prendiamo ancora il concetto di qualità e la sua evoluzione.
Tutto era cominciato dalla ricerca di vantaggi competitivi in un contesto di produzione affollato e globalizzato. Dalla “total quality” nipponica certamente sorretta da una cultura dell’orgoglio e della perfezione il concetto di qualità si è rapidamente diffuso come ricerca di un asset spendibile dentro e fuori l’azienda, per chiedere maggiore impegno e coinvolgimento da un lato e promettere un prodotto più curato ed affidabile dall’altro.
L’irresistibile forza di gravità della banalizzazione riuscì rapidamente a stravolgere il potenziale positivo di questa morale della qualità traducendola in una prassi di controllo burocratico destinato spesso a distribuire certificati più che a produrre una tensione alla qualità dei processi e dei prodotti.
Allo stesso tempo la necessità di conquistare consumatori determinò lo spostamento dalla produzione alla percezione: l’importante divenne così determinare una “customer satisfaction” basata sulla qualità percepita che dava valore aggiunto a marchi e prodotti, soprattutto attraverso i servizi e la distribuzione.
In tempi recenti al tema della qualità è stato aggiunto quello della sostenibilità (CSR) e il tutto si è evoluto nell’odierna etica aziendale. L’idea oggi emergente, infatti, è che una impresa non può più immaginarsi solo come centro di generazione di profitto ma deve interpretarsi verso l’esterno come attore sociale responsabile, verso l’interno come centro di cultura e formazione, e verso gli stakeholders come partner democratico.
La meta è troppo importante e merita un impegno condiviso nell’affrontare le tematiche profonde che caratterizzano questa nuova visione dell’impresa e che ancora appartengono solo a una parte del mondo aziendale.
Mentre cominciano ad accumularsi dati e testimonianze empiriche sul valore reale dell’eticità come fattore di successo e sulla sua compatibilità con la profittabilità, vi sono ancora delle questioni basilari in attesa di risposte ampiamente condivise: cosa si intende esattamente per “etica della/nella impresa” e “come si fa” a costruire una “impresa etica”?
Il fatto è che l’etica non nasce da una “volontà organizzativa” né da un “codice procedurale” da sottoscrivere, ma da una diversa visione del mondo, da una “forma mentis” che non si produce rimanendo entro le logiche economico-aziendali radicate nella cultura organizzativa tradizionale ma contaminandole con la cultura umanistica, filosofica, psicologica e storica.
In questo campo, infatti, la verifica della validità della teoria passa necessariamente dall’applicazione e dall’esperienza pratica.
Il lavoro da fare è ancora molto e questa volta non potrà essere solo una condivisione formale, ma un “agire” basato sulla consapevolezza, un vedere oltre ciò che guardiamo, sperimentare, mettere in pratica, con coraggio, fiducia e rispetto. E, come ho potuto sperimentare io stesso nella mia azienda, un agire consapevole che rende l’impresa un organismo vivente, autonomo e indipendente, in sintonia con le persone, con la società, con l’ambiente e con il profitto, in cui la qualità e l’etica non sono teorie o percezioni ma valori vissuti e tangibili.