Se l’orsetto fosse solo un peluche
Qualche riflessione innescata dalla 52esima Giornata mondiale della Terra
Avete mai sognato di vivere la magia di un incontro ravvicinato, in natura, con un tenero koala, o forse con un più temibile orso polare? Di posare lo sguardo, magari solo di sfuggita, sul manto ipnotico di una zebra? Oppure, di rimanere senza fiato di fronte all’improvvisa presenza di una balenottera azzurra, il più grande mammifero del pianeta?
Presto, per tutti noi e per le prossime generazioni, potrebbe essere davvero solo un sogno, perché i quattro animali citati – così comuni nel nostro immaginario o nei libri illustrati dei bambini – sono a forte rischio di estinzione. Ciò significa che nel breve giro di qualche decennio potrebbero scomparire dalla faccia della Terra, naturalmente insieme a un numero elevatissimo di altre specie di piante e animali.
In effetti, sono più di un milione le specie viventi che rischiano l’estinzione a causa delle attività umane.
L’allarme, lanciato dall’Ipbes (Piattaforma Intergovernativa sulla Biodiversità e sui Servizi Ecosistemici), costituita nel dicembre 2010 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, traccia un quadro a tinte fosche sull’accelerazione del degrado degli habitat naturali e delle specie ospitate, con pericoli che minacciano alla lunga anche il genere umano.
Finora le attività antropiche,
rileva il rapporto Ipbes, hanno alterato gravemente il 75% delle superfici terrestri, il 40% degli ecosistemi marini e la metà di quelli di acqua dolce.
Ma quali sono le cause della perdita di biodiversità, e della rottura dei meccanismi di interdipendenza ecologica che legano ogni specie all’altra, uomo compreso?
Secondo il rapporto Ipbes – al quale lavorano ogni anno centinaia di ricercatori di 50 diversi Paesi – degli 8 milioni di specie presenti sulla Terra, un ottavo è destinato a scomparire come conseguenza dell’urbanizzazione, dei metodi di sfruttamento delle terre e delle risorse naturali, per deforestazione, attività minerarie, agricoltura intensiva, uso di pesticidi e insetticidi, prelievo della pesca, depauperamento e inquinamento dei mari.
Lo scienziato britannico ed ex presidente dell’Ipbes, sir Robert Watson, in un articolo a sua firma pubblicato dal Guardian ha scritto:
“È necessario riconoscere che la perdita di biodiversità e i cambiamenti climatici indotti dall’uomo non sono solo questioni ambientali, ma anche di sviluppo economico e sociale, di sicurezza, di equità e di carattere morale. Il futuro dell’umanità dipende dall’agire ora”.
Tutti conosciamo le conseguenze più vistose del cambiamento climatico: le temperature che salgono, lo scioglimento dei ghiacciai, la siccità, il pericolo di carestie. Ma quali potrebbero essere quelle che ora gli esperti chiamano “conseguenze nascoste”?
Lo studioso di diritto internazionale Philip Alston, nominato relatore speciale delle Nazioni Unite, parla esplicitamente del rischio che si venga a creare un apartheid climatico.
“Gli abitanti dei paesi più poveri dovranno fronteggiare ondate estreme di calore e saranno sempre più a rischio carestia. Questo causerà un aumento esasperato delle già crescenti diseguaglianze sociali, mettendo a rischio non solo l’accesso di tutti ad acqua, cibo, domicilio e sanità, ma addirittura la democrazia e lo stato di diritto.”
I paesi in via di sviluppo dovranno infatti sostenere il 75% dei costi della crisi climatica, anche se la metà più povera del mondo è responsabile solo del 10% delle emissioni di anidride carbonica.
Intere popolazioni potrebbero essere costrette, nel giro di qualche anno, a fuggire da condizioni non più sopportabili, aumentando così le tensioni sociali delle nazioni verso le quali, questi uomini, donne e bambini inevitabilmente si dirigeranno.
Tutti gli osservatori concordano nel dire che c’è bisogno di intraprendere urgentemente una profonda trasformazione economica e sociale, se vogliamo evitare una catastrofe climatica.
Eppure le preziose risorse costituite dalla biodiversità, e gli inestimabili contributi della natura all’umanità, sono spesso percepiti ancora oggi da numerose persone come dati accademici molto lontani dalla nostra vita quotidiana. Ne è convinto l’ex presidente dell’Ipbes, sir Robert Watson, che ha ammonito:
“Niente potrebbe essere più lontano dalla verità: sono invece la base del nostro cibo, acqua pulita ed energia. Sono al centro non solo della nostra sopravvivenza, ma anche delle nostre culture, identità e godimento della vita. Le migliori prove disponibili, raccolte dai maggiori esperti mondiali, ci portano ora a un’unica conclusione: dobbiamo agire, oppure rischiare non solo il futuro che vogliamo, ma anche le vite che conduciamo attualmente.”
Ho però l’impressione che, negli ultimi due anni, questa errata percezione da parte di molti sia addirittura peggiorata. Forse a causa dei gravi problemi costituiti prima dalla pandemia e ora dalla guerra in Ucraina, che hanno necessariamente spostato l’attenzione mediatica.
Ma, nel frattempo, la sofferenza dell’ambiente si è solo aggravata.
Il cambiamento del clima, in effetti, non aspetta e non si ferma. Per questo ora serve urgentemente un altro cambiamento. Un forte cambiamento culturale, un vero e proprio mutamento di paradigma, per tradurre in realtà ciò che tutti i maggiori esperti hanno concordato come inderogabile.
Intanto il climate clock di New York – l’iconico cronometro installato nel 2020 a Union Square – è stato replicato anche a Berlino, Glasgow, Roma e Seul.
Ora i cinque orologi climatici segnano, inesorabilmente e all’unisono, il tempo più importante per il mondo: quello che ci è rimasto per azzerare le emissioni di gas serra. Ovvero, il tempo che ci resta prima che il cambiamento climatico si alteri in maniera irreversibile.
Per salvarci c’è solo la strada così chiaramente indicata da ogni segnale di interdipendenza: unirci tutti pacificamente e agire nella stessa direzione per proteggere la natura e i suoi inestimabili contributi a favore delle persone.
Sarà questa la sfida decisiva dei prossimi decenni.
Soltanto così potremo invertire la tendenza che vede diminuire ogni anno il numero di specie, di ecosistemi e di diversità genetica, per iniziare davvero a prenderci cura del nostro splendido pianeta.
Niccolò